Gli astronomi hanno determinato il momento in cui tutto l’idrogeno gassoso neutro prodotto dal Big Bang si è completamente ionizzato.

Dopo il Big Bang, il cosmo era una zuppa di plasma molto calda, densa e in rapida espansione. Si trovava anche in nella cosiddetta “era oscura” perché non esistevano fonti di luce, era tutto buio e caldo. Cosa è successo dopo? Certamente, la Terra non esisteva ancora e neppure le stelle e le galassie. Tutto ciò era molto lontano nel tempo, nello spazio e nella sua evoluzione.
Non c’era nemmeno luce, arrivata in seguito durante l’alba cosmica.

Una rappresentazione dell'evoluzione dell'universo in 13,77 miliardi di anni
Una rappresentazione dell’evoluzione dell’universo in 13,77 miliardi di anni. Credit: NASA / WMAP Science Team

L’Universo si accende

Per arrivare alla luce, l’universo ha dovuto superare questo periodo buio che si è protratto per circa 380.000 anni. Durante questo lasso di tempo l’universo si è espanso e raffreddato, ciò ha permesso di passare al suo successivo stato di esistenza. Raffreddandosi, i protoni e gli elettroni sono stati in grado di combinarsi e creare grandi quantità di idrogeno neutro. L’Universo ha trascorso circa 100 milioni di anni in questo periodo dominato dall’idrogeno neutro prima che iniziassero a formarsi le prime galassie.

Con l’accensione delle prime stelle è arrivato il calore o, per essere più scientificamente corretti, la ionizzazione. Ciò è accaduto quando la luce ultravioletta di quelle calde e giovani stelle massicce, definiti di Popolazione III, ha lacerato gli atomi di idrogeno e separato gli elettroni dai protoni.

Questo è il riassunto di come l’Universo si sia illuminato solo poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang entrando in quella che i cosmologi chiamano “l’Epoca della Reionizzazione”: l’alba della luce nell’Universo.

Quasar
Rappresentazione artistica di un quasar. Credit: ESO/M. Kornmesser

La luce delle Quasar

Gli astronomi avevano chiaro quando fosse iniziata l’alba cosmica, ma il dibattito su quando sia finita sta andando avanti da lungo tempo. Ottenere una data precisa sulla fine dell’alba è importante perché può aiutare a capire le prime generazioni di stelle che hanno illuminato l’universo. Una volta che gli astronomi avranno maggiori informazioni su quegli oggetti primitivi, potrebbero trovare risposta anche molte altre domande cosmologiche.

La ricerca della fine dell’alba ha portato la dottoressa Sarah Bosman e un gruppo di astronomi del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg a cercare indizi nell’idrogeno. Non un idrogeno qualsiasi, ma quella versione neutra che esisteva molto prima dell’alba cosmica e che doveva essere l’unico elemento presente in un momento specifico.

Per scoprirlo, hanno setacciato la luce che giunge a noi da 67 quasar enormemente distanti utilizzando lo spettrografo X-shooter dell’Osservatorio europeo meridionale installato sul Very Large Telescope (VLT) in Cile.

Rappresentazione artistica di stelle primordiali, 400 milioni di anni dopo il Big Bang. Credits: NASA-WMAP

Dall’alba cosmica attraverso l’universo

La luce dei quasar catturata dall’X-shooter è passata attraverso nubi di idrogeno a diverse distanze da noi. La luce è passata attraverso nuvole ionizzate e nuvole neutre. L’idrogeno neutro ha lasciato una caratteristica “impronta digitale” sullo spettro della luce del quasar a una lunghezza d’onda di 121,6 nanometri, nella gamma ultravioletta dello spettro elettromagnetico. Tuttavia, la luce appare “spostata” all’estremità rossa dello spettro a causa dell’espansione dell’universo e la quantità di questo spostamento fornisce la distanza corretta.

I dati sulla distanza hanno permesso a Bosman e colleghi di effettuare una misurazione precisa della fine dell’alba cosmica avvenuta a 1,1 miliardi di anni dopo il Big Bang

Gli spettri studiati dal team di Bosman hanno presentato alcune complicazioni poiché la luce dei quasar è passata attraverso varie regioni dello spazio nel suo viaggio verso la Terra. Ciò ha lasciato un groviglio di impronte digitali nei loro spettri. Quindi, gli astronomi si sono dovuti districare tra tutte le diverse impronte digitali. Per fare ciò, hanno utilizzato un modello matematico che riproduce le variazioni di luce misurate in un momento successivo nell’Universo, quando il gas intergalattico era già completamente ionizzato. Quando hanno confrontato quel modello con le loro osservazioni, hanno trovato un punto in cui la linea di luce di 121,6 nanometri che hanno osservato era spostata di un fattore di 5,3 volte. Ciò corrisponde all’età cosmica di 1,1 miliardi di anni (dopo il Big Bang): l’ultimo periodo della storia cosmica in cui l’idrogeno neutro deve essere stato presente nello spazio intergalattico. Successivamente, la luce ultravioletta delle stelle ha ionizzato l’idrogeno intergalattico. Quel momento segna la fine dell’alba cosmica.

Dalla Terra, guardiamo sempre al passato del cosmo. La luce dei quasar lontani dell’universo primordiale è passata attraverso il gas già parzialmente ionizzato dell’epoca della reionizzazione, disposto attorno alle prime galassie. L’idrogeno gassoso neutro tra le galassie produce le firme di assorbimento. A causa dell’espansione dell’Universo, le linee di assorbimento appaiono spostate verso il rosso in modo diverso dalla gamma UV. Credits: reparto grafico MPIA

Prossimi passi

Ora che è stata fissata una nuova data di riferimento, cosa succederà?

Più osservazioni, ovviamente. “Questo nuovo set di dati fornisce un punto di riferimento cruciale rispetto al quale le simulazioni numeriche del primo miliardo di anni dell’Universo saranno testate negli anni a venire“, ha affermato il membro del team Frederick Davies.

Le prossime osservazioni si occuperanno di caratterizzare le sorgenti ionizzanti, ovver le primissime generazioni di stelle di Popolazione III.

Conoscere tale data fornirà anche strumenti per ulteriori simulazioni numeriche del periodo in cui le stelle hanno illuminato per la prima volta l’universo. E dovrebbe aprire le porte all’esplorazione dell’intera alba cosmica. La direzione futura è espandere la datazione a tempi ancora precedenti, verso il punto medio del processo di reionizzazione. Purtroppo, distanze maggiori comportano che quelle quasar sono più deboli, perciò la raccolta dei dati ampliata con telescopi di prossima generazione (come l’ELT) sarà cruciale.

Riferimenti: Max Plank Institute, UniverseToday

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