L’uomo si avvicina allo spazio. Un elemento fondamentale è stata proprio la tuta spaziale necessaria per la sopravvivenza degli astronauti

Magari non ci si fa molto caso, ma dietro un viaggio nello spazio ci sono migliaia di piccoli dettagli da tenere in considerazione. Se le astronavi e le stazioni spaziali richiedono cure particolari, la stessa regola si applica a questi “involucri” indossati dagli astronauti.

Il volo di McCandless
Credit: NASA

Sviluppata per proteggere il corpo umano, la tuta spaziale deve essere in grado di:

Regolare la temperatura corporea evitando il grande freddo dello spazio;
Impedire al vuoto, praticamente assoluto, di far morire l’astronauta tra embolie, spasmi e ipossia, che non sarebbe davvero un bel modo di morire.
proteggere (in parte) dai raggi del sole;

Proteggere da piccole rocce erranti nello spazio;

Evitare l’attrito, anche se piccolo, con corpi esistenti nello spazio;
Controllare la pressione sanguigna, insomma, deve ricreare un microclima ideale al mantenimento in vita dell’astronauta che la indossa.

La tuta spaziale isola integralmente dall’ambiente esterno
Credit: NASA

Permettere di espletare le funzioni fisiologiche umane, viste le molte ore passate dentro questo “scafandro cosmico.”

La necessità di uscire

Possiamo dire che le tute spaziali hanno diverse funzioni, in grado di fornire sicurezza a coloro che le indossano. Certamente nessuna di queste caratteristiche speciali sarebbe raggiunta se non fossero utilizzate tecnologie avanzate fin dagli esordi, da sempre si cercano materiali leggeri e sicuri, con cui sia possibile filtrare la luce a lunghezze d’onda utili e ignorare quelle inutili o dannose per l’uomo, assicurare l’isolamento termico, mantenendo a 36,5 gradi il corpo umano, mentre “là fuori” si puó arrivare dagli oltre + 100 Cº ai -270 C°.

Samanta Cristoforetti si appresta a fare un test con la EMU
Credit: NASA/ESA

Le tecnologie applicate alla tuta spaziale

Con queste premesse é facile capire che dei materiali tradizionali non sarebbero in grado di offrire la minima garanzia di sicurezza.

Sono molti i tipi di tuta spaziale, da quelle leggere per i lanci, in cui la necessità è appena (si fa per dire) quella di mantenere l’ossigenazione e un minimo di pressione in caso di avarie alla capsula spaziale, alle piú complete e sofisticate progettate per le EVA, acronimo inglese di Extra Vehicular Activity, ossia attivitá extra veicolare.

Le futuristiche tute, ancora in studio, per le future missioni lunari del programma Artemis
Credit: NASA

Per non dilungarci troppo parleremo di questa seconda tipologia, quella che possiamo definire tranquillamente una “piccola astronave per uso personale”, perché di questo alla fine si tratta, un involucro che ci permette di uscire dalla ISS, o da capsule spaziali per attivitá di manutenzione e ricerca.

L’abbigliamento ha un peso medio, sulla Terra, di 130 kg: questo valore è in realtà la somma della tuta e delle attrezzature ausiliarie e di sicurezza, che consentono all’utente di condizioni vitali molto simili a quelle terrestri. Nello spazio questo peso si annulla o, nel caso della Luna, si riduce ad 1/6, poco meno di 22 kg.

Dai reggiseni alle tute spaziali

La maggior parte delle persone che leggono questo testo devono pensare che i primi modelli di tuta spaziale utilizzati dagli astronauti siano stati progettati dalla NASA stessa o da un’agenzia simile. Ma la verità è molto più semplice: la società che ha creato il costume era in realtà un produttore di reggiseni e cinturini, chiamato Playtex, vi suona nuovo questo nome? Credo proprio di no.

Formato da un piccolo gruppo di sarte e ingegneri, guidato da un meccanico di automobili e da un ex riparatore televisivo, il progetto Playtex (all’epoca “International Latex Corporation” o ILC) sembrava quasi uno scherzo di cattivo gusto.

Le cuciture erano fatte a mano o con una macchina da cucire.

Questo perchè, al fine di ottenere un contratto con la NASA, il gruppo avrebbe dovuto vincere altre due società molto più grandi e con più risorse. Inoltre, le tute delle altre compagnie erano composte da parti solide (che le facevano sembrare armature con elmetti), mentre l’abbigliamento di Playtex era quasi completamente in tessuto.

Uno dei primi prototipi di tuta spaziale.

Per il momento, l’idea era completamente ridicola, dal momento che nessuno credeva nella possibilità di un abito senza diverse solide piastre per proteggere gli astronauti dalla mancanza di pressione nello spazio. Ma l’abbigliamento aveva resistito ai test e la sua qualità si era dimostrata superiore a quella delle altre due aziende, tanto è bastato al progetto Playtex per aggiudicarsi un contratto, il suo asso nella manica fu quello di dimezzare (e forse anche piú) il peso delle tute, uno dei “nemici” piú grandi nella progettazione di una missione spaziale.

I vestiti del futuro

Fin dalle prime idee per le alte quote, era comune avere un rivestimento di colore metallico (di solito argento). E lo stesso è stato fatto con i vestiti degli astronauti.

Le tute argentate di Mercury e, sucessivamente, Gemini
Credit: NASA

Solo per fare bella figura

Ma non pensate che tutto questo argento avesse uno scopo funzionale, come riflettere i raggi del sole e ridurre il calore di chi li indossava; infatti, il bianco è il miglior colore per questa funzione.

Il bianco é il colore dominante nelle moderne tute spaziali
Credit: Thomas_D_Akers astronaut – NASA

 La verità è che quella era strategia di marketing: a quel tempo, gli oggetti colorati d’argento erano sinonimo di “futuro“. Quindi, coprire le tute di argento ha aiutato le persone a pensare che questi equipaggiamenti fossero ancora più avanzati di quello che giá erano in realtà.

Modelli Sovietici e russi

SK-1

Si puó definire la prima tuta spaziale della storia, o almeno la prima ad essere andata in orbita, al netto delle speculazioni in cui si parla di astronauti morti in tentativi antecedenti alla storica “prima volta”, Yuri Gagarin, cosmonauta sovietico, il primo uomo ad andare (ufficialmente) in orbita terrestre.

Non era destinata ad attivitá extra veicolare, era una tuta che pesava “appena” 20 kg, era collegata alla capsula per il supporto vitale, doveva mantenere in sicurezza il pilota in caso di improvvisa decompressione, ma niente di piú, 10 minuti al massimo, non erano tempi in cui si badava troppo alla sicurezza, era una esperienza tutta nuova.

La tuta usata da Yuri Gagarin. Credit: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Russian_space_suit_2.jpg

BERKUT

Direttamente derivata dalla SK-1 aveva in piú uno zaino contenente il supporto vitale, e una valvola per lo scarico di umiditá e anidride carbonica in eccesso, é la prima tuta ad aver compiuto una EVA, indossata dal cosmonauta sovietico Aleksej Leonov, che con un coraggio straordinario affrontò il rischio nell’esporsi all’ostile ambiente dello spazio.

Dopo poco piú di 10 minuti di passeggiata spaziale Leonov si accorge che i movimenti sono quasi impossibili, vista la pressione interna della tuta, inutili tutti gli sforzi. A un certo punto mette mano alla valvola di depressurizzazione, e porta la tuta in condizioni di emergenza, allentando cosí la rigidezza strutturale dell’abbigliamento spaziale. Con non poca fatica rientra sano e salvo, Leonov ha appena ricevuto una grande lezione, che servirá per lo sviluppo dei futuri equipaggiamenti.

La tuta usata da Aleksej Leonov. Credit: http://galspace.spb.ru/museum-1.file/IMG_2908.jpg https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Berkut_spacesuit.JPG

KRECHET

Sviluppata per andare sulla Luna, era molto piú avanzata delle precedenti menzionate, pesava 90 kg e poteva garantire 10 ore di funzionamento continuato. Aveva tre visiere per filtrare i raggi solari e un sofisticato sistema di climatizzazione interno, a partire da questa meraviglia della tecnica prese piede il sistema di ingresso attraverso il pac di sopravvivenza, una vera e propria firma stilistica dell’abbigliamento spaziale sovietico e russo. Non é mai stata usata in missione.

JASTREB

Una evoluzione della Krechet, anch’essa sviluppata per andare sulla Luna, venne poi usata nelle missioni Soyuz, la differenza verso la prima é l’uso esteso di Nylon, l’eliminazione di parti rigide per aumentare la mobilità, e la riduzione degli ingombri totali per facilitare l’entrata e uscita dai boccaporti.

Yastreb space suit. Credit: http://galspace.spb.ru/ https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Yastreb_suit.jpg

ORLAN

Prodotta in varie versioni è il gioiello dell’ingegneria spaziale russa. Leggera e pratica, permette la sua vestizione in appena 5 minuti, con la caratteristica entrata per l’apertura dietro lo zaino che contiene il sistema di mantenimento. Ha una autonomia di 7 ore ed é attualmente in uso sulla ISS.

Modelli statunitensi

GC-4

É la prima tuta spaziale americana a compiere una EVA, per 23 minuti Ed White, pilota di Gemini 4, fluttua nello spazio, usando una pistola ad aria compressa per spostarsi.

La tuta in sé é un capolavoro di ingegneria, sviluppata sull’esperienza delle precedenti, usate su Mercury e Gemini, è dotata di sei strati di nylon e nomex, con una rete di fissaggio e uno strato esterno di tessuto in nomex bianco. Gli stivali sono removibili, cosí come i guanti, i quali hanno un tipo di attacco a ghiera metallica, che permette una grande mobilitá dei polsi.

Ed White durante la sua EVA
Credit NASA

Apollo/Skylab A7L

É forse la piú famosa, se non la piú conosciuta. Ha camminato sulla Luna, proteggendo egregiamente gli astronauti Apollo.

Le parti principali della tuta AL7, nella foto la leggendaria Armstrong space suit
Credit: NASA

La tuta era costruita da ILC Dover e il sistema di supporto vitale da Hamilton Standard, due imprese che riuscirono a vincere gli appalti all’epoca.

Basicamente era composta da 5 strati di materiali, con parti in gomma sintetica e naturale su spalle, gomiti, polso, fianchi, caviglia e articolazioni del ginocchio, il tutto per permettere i movimenti piú agili possibili.

Vennero mantenuti gli attacchi ad anello per i guanti e il nuovo casco “da acquario”, cosí scherzosamento chiamato dagli addetti ai lavori. Era sostanzialmente una bolla di vetro temperato che permetteva la miglior visione possibile.

Questa tuta garantiva la pressione costante anche in caso di totale decompressione della capsula, e poteva essere collegata ai sistemi vitali di bordo attraverso dei bocchettoni colorati in rosso e azzurro, colori che indicavano l’entrata di ossigeno (azzurro) e l’uscita dell’anidride carbonica (rosso).

Ovviamente la complicazione di questa tuta non si riassume in poche righe, aveva delle soluzioni molto sosfisticate, studiate per minimizzare al massimo i rischi. Se prima ho detto 5 strati principali, in realtá ho omesso un po di cose: in realtá c’erano tredici strati di materiale (dall’interno verso l’esterno): nylon rivestito di gomma, 5 strati di Mylar alluminizzato , 4 strati di Dacron non tessuto , 2 strati di pellicola Kapton alluminizzata / laminato Beta marquisette e filamento Beta rivestito in teflon .

Il casco di AL7
Credit: NASA

Per usare questa tuta l’astronauta doveva indossare prima un indumento che serviva come collegamento al sistema. Nel tessuto scorrevano dei tubicini che trasportavano acqua, la quale veniva riscaldata o raffreddata per mantenere l’astronauta protetto dagli sbalzi violenti di temperatura. Sulla Luna, per esempio, si avevano -100 gradi all’ombra, e +100 alla luce del Sole in media.

A partire da Apollo 13 le tute dei comandanti guadagnarono delle bande rosse sul casco, braccia e gambe, e leggeri miglioramenti per agilizzare i movimenti. Nelle precedenti missioni si era notato quanto era difficile distinguere chi erano gli astronauti, soprattutto nelle foto.

Nessuna tuta ebbe mai problemi, nelle ultime tre missioni, la 15-16-17, l’unica modifica fu l’adozione di un sistema di mantenimento con prestazioni superiori, visto che erano previste almeno 15 ore di EVA per missione.

Terminato il programma Apollo la A7L fu largamente impiegata nelle missioni Skylab e Apollo/Soyuz.

Al momento è il modello con il curriculum piú imponente nella storia dell’esplorazione spaziale.

EXTRAVEHICULAR MOBILITY UNIT – EMU

È il modello piú avanzato in uso dagli Stati Uniti, prodotta in varie versioni é stata progettata negli anni 80 per essere usata dagli equipaggi dello Shuttle in attivitá extra veicolari tra cui, le piú famose furono quelle per riparare il telescopio spaziale Hubble.

Questa tuta é un modello semirigido, il torso é un pezzo unico in cui sono collegate le braccia e il sistema di mantenimento vitale.

Samanta Cristoforetti ispeziona la sua EMU. Credit: ESA/NASA

L’astronauta, prima di entrare, deve vestire una tuta leggera in cui passano dei tubicini pieni d’acqua, che mantengono la temperatura corporale adeguata.

Pur avendo prestazioni leggermente superiori della tuta Russa ORLAN, la EMU richiede maggiori precauzioni.

Se la ORLAN puó essere indossata in 5 minuti, questo non succede con la EMU, in cui le procedure di vestizione sono molto piú complicate.

Le fasi di ingresso in questa tuta richiedono un certo contorsionismo da parte dell’astronauta, e anche i controlli pre-EVA sono piú lunghi.

È davvero difficile entrare in una EMU. Credit: NASA/ESA

Gli astronauti che hanno usato questa tuta riferiscono che é come “essere tumulati”, é una sensazione quasi claustrofobica quella che si prova una volta che viene pressurizzata. La EMU é l’unica tuta spaziale che ha, tra i suoi componenti, un jet pack di emergenza. Gli astronauti restano saldamente collegati con un cavo di sicurezza ma, in caso di rottura, hanno questo sistema di propulsione ad aria che gli permette di raggiungere il boccaporto.

Una vera e propria mini astronave.

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