Un nuovo studio ha suggerito una soluzione all’ipotesi della radiazione di Hawking emessa dai buchi neri che potrebbe trasportare informazioni.

Il paradosso del fisico Stephen Hawking potrebbe finalmente aver trovato una soluzione: una nuova ricerca suggerisce come i buchi neri potrebbero aggrapparsi alle informazioni sulle stelle massicce che li hanno creati. L’informazione rilasciata potrebbe nascondersi nella radiazione attorno ai buchi neri – nota anche come “capelli quantici” – e potrebbe, in teoria, essere recuperata per raccontare le origini di quei buchi neri.

Questa nuova scoperta, pubblicata lo scorso 6 marzo sulla rivista Physics Letter B, potrebbe finalmente risolvere uno spinoso problema su cui Hawking stava lavorando nei suoi ultimi anni di vita. 

Il problema dei buchi neri

La foto del buco nero M87
Credit: EHT

Secondo il lavoro di Stephen Hawking, la radiazione “fuoriesce” lentamente dai buchi neri sotto forma di energia termica, chiamata “radiazione di Hawking”. Ma a causa della sua natura termica, questa radiazione non può trasportare informazioni. Ciò significa che quando i buchi neri evaporano, distruggono metodicamente tutte le informazioni sulle stelle che li hanno creati.

Ciò però è contrario alle leggi della meccanica quantistica, che affermano che l’informazione non può essere distrutta e che lo stato finale di un oggetto può rivelare indizi sul suo stato iniziale. Questo problema ha turbato i cosmologi per decenni ed è noto come il “paradosso dell’informazione di Hawking”.

Xavier Calmet, professore di fisica all’Università del Sussex e autore principale dello studio, ha suggerito una modifica alla radiazione di Hawking che la renda “non termica” e quindi in grado di portare con sé informazioni lontano dal destino finale del buco nero.

I buchi neri sono oggetti così massicci che nulla può sfuggire all’attrazione della loro gravità, nemmeno la luce. Si formano quando enormi stelle esauriscono il carburante e collassano su sé stesse. Secondo Calmet, nella fisica classica i buchi neri sono “oggetti molto semplici”, e possono essere caratterizzati da tre numeri: la loro massa, il momento angolare e la carica elettrica.

Il famoso fisico John Wheeler descrisse questa mancanza di caratteristiche distintive dicendo che “i buchi neri non hanno capelli” ma, mentre il buco nero finale è molto semplice, la stella originale che lo ha generato è un oggetto astrofisico complesso, costituito da un complicato amalgama di protoni, elettroni e neutroni che si uniscono per formare gli elementi che costruiscono la composizione chimica di quella stella. 

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Mentre i buchi neri non portano “memoria” delle stelle che erano una volta, le regole della fisica quantistica dicono che le informazioni non possono essere semplicemente cancellate dall’universo. Nel 1976, Hawking introdusse una teoria, mostrando che questa informazione non poteva risiedere indefinitamente all’interno di buchi neri sigillati dall’universo esterno. Applicando le regole della meccanica quantistica ai buchi neri, Hawking suggerì che emettessero un tipo di radiazione termica, in seguito chiamata radiazione di Hawking. Durante un lunghissimo periodo di tempo, la fuoriuscita di questa radiazione fa evaporare completamente i buchi neri, lasciando dietro di sé solo un vuoto. In questo modo, le informazioni vengono irrimediabilmente perse.

Questo tuttavia non è consentito dalla fisica quantistica, che ipotizza che a partire dalla radiazione di Hawkings dovremmo essere in grado di ricostruire il buco nero originale sino alla stella.

Alla ricerca dei “capelli”

Rappresentazione artistica di un buco nero circondato da materiale incandescente
Credit: NASA

Insieme al suo collega Steve Hsu, professore di fisica teorica alla Michigan State University, Calmet è al lavoro dal 2021 per risolvere il paradosso di Hawking. In uno studio precedente, pubblicato nel marzo 2022, il team ha sostenuto che i buchi neri hanno effettivamente dei “peli quantici” in forma di un’impronta quantistica unica nei campi gravitazionali che li circondano.

Ora, nella nuova ricerca, il team ha rivalutato i calcoli di Hawking del 1976, ma questa volta ha tenuto conto degli effetti della “gravità quantistica“, ovvero la descrizione della gravità secondo i principi della meccanica quantistica, un qualcosa che Hawking non aveva fatto. 

Sebbene queste correzioni gravitazionali quantistiche siano minuscole, sono cruciali per l’evaporazione dei buchi neri. Il team è stato in grado di dimostrare che questi effetti modificano la radiazione di Hawking in modo tale che questa radiazione diventi non termica. In altre parole, tenendo conto della gravità quantistica, la radiazione può contenere informazioni.

Mentre i capelli quantici suggeriti nel precedente lavoro di Calmet e Hsu erano un concetto matematico astratto, il team ha ora identificato l’esatto fenomeno fisico attraverso il quale le informazioni sfuggono ai buchi neri attraverso la radiazione di Hawking e come potrebbero essere recuperate da un osservatore. Questo purtroppo al momento non è tecnicamente possibile: richiederebbe uno strumento sufficientemente sensibile per misurare la radiazione di Hawking che oggi è solo teoria. 

Attualmente non esiste un vero modo per gli astrofisici di misurare l’effetto proposto dai ricercatori, poiché è minuscolo, fatto riconosciuto in primis da Calmet. Il fisico suggerisce però che un modo per far progredire nel frattempo questa teoria sarebbe studiare simulazioni di buchi neri nei laboratori sulla Terra. La modellazione matematica della radiazione di Hawking e dei buchi neri potrebbe infatti rivelarsi molto preziosa e aggiungere nuove scoperte.

Riferimenti: Space.com, Physics Letter B