Alcuni satelliti per il monitoraggio del Sole presentano un’opacizzazione dei filtri utilizzati che degrada le prestazioni. Ora gli scienziati hanno capito perché.

Gli scienziati del National Institute of Standards and Technology (NIST) e del Laboratory for Atmospheric and Space Physics (LASP) hanno risolto il mistero della degradazione dei filtri solari in alcuni satelliti che si occupano dell’osservazione del Sole. Il team ha cercato di capire cosa sta annebbiando e compromettendo le prestazioni delle minuscole e sottili membrane metalliche che filtrano la luce solare mentre entra nei rilevatori che monitorano i raggi ultravioletti. Questi satelliti sono molto importanti perchè possono avvisarci di imminenti tempeste solari che potrebbero raggiungere la Terra e interrompere temporaneamente le comunicazioni o interferire con le letture GPS.

L’anno scorso il team aveva già smentito la teoria prevalente che questa opacità dipendesse da un accumulo di carbonio sulla superficie dei filtri provenienti da fonti organiche che si nascondevano sui satelliti.

L’ossidazione dei filtri

Brillamento Solare
Brillamento solare osservato il 12 giugno 2015. Credits: Credit: NASA/SDO

In una serie di tre nuovi articoli, il team ha sostenuto con forza quello che pensano sia il vero colpevole: l’ossidazione causata dall’acqua, che insieme alla luce UV del Sole sta producendo uno spesso strato di ossido di alluminio – molto più spesso di quanto si ritenesse possibile – che blocca i raggi in arrivo. Inoltre, i ricercatori ritengono di aver identificato la fonte dell’acqua: le coperte termiche, utilizzate per controllare la temperatura degli strumenti su un veicolo spaziale.

Queste informazioni potrebbero aiutare gli scienziati a migliorare le prestazioni dei futuri satelliti che si affidano a questo tipo di filtro, magari aggiungendo hardware che limiti l’esposizione dei filtri all’area attorno alle coperte termiche o utilizzando materiali diversi come parte dei filtri stessi.

Un elemento fondamentale dell’equipaggiamento dei rilevatori spaziali rivolti verso il Sole sono i filtri in alluminio, ciascuno più piccolo di un francobollo, che bloccano tutta la luce EUV tra 17 nm e 80 nm. Sebbene inizino la loro vita nello spazio filtrando molta luce EUV nel loro raggio d’azione, nel giro di pochi anni possono perdere una quantità significativa della loro capacità. Ad esempio, un filtro potrebbe iniziare consentendo il passaggio del 50% della luce EUV a 30 nm al rilevatore. Quel numero può scendere al 25% entro un anno e al 10% entro cinque anni.

Gli scienziati credevano che una sostanza sconosciuta stesse crescendo o si fosse depositata sui filtri, facendoli oscurare in pochi mesi e limitando la quantità di luce che penetra nei rivelatori. La teoria principale era che il carbonio fuoriuscisse dallo strumento stesso e si depositasse sui filtri.

Quando lo staff del NIST e del LASP hanno verificato che questa non fosse la causa, hanno rivolto la loro attenzione a quella che ritenevano una spiegazione molto più probabile: il processo di ossidazione. In questo processo gli atomi di ossigeno delle molecole d’acqua si combinano con gli atomi di alluminio del filtro stesso per formare uno strato nebbioso di ossido di alluminio. Per esempio, un sottile strato di ossido di alluminio ricopre naturalmente tutti gli oggetti di alluminio sulla Terra, dalle lattine alle padelle.

Basta aggiungere acqua

Rappresentazione artistica della sonda SOHO
Credit: NASA

Gli scienziati sapevano già che l’esposizione di una superficie di alluminio alla luce UV in presenza di acqua può far crescere ulteriori strati di ossido oltre a quelli che si formano naturalmente. Ma non esisteva alcuna teoria che potesse spiegare come l’ossido di alluminio potesse diventare abbastanza spesso da causare questo problema di opacità.

I ricercatori hanno quindi deciso di esplorare a fondo come la presenza di acqua potesse influenzare i filtri per determinare cosa stesse realmente accadendo. Grazie a un dispositivo particolare chiamato SURF (Synchrotron Ultraviolet Radiation Facility) hanno esposto i loro filtri campione alla luce UV prodotta in laboratorio per un massimo di 20 giorni, senza però essere in grado di far crescere strati di ossido spessi quanto era necessario per spiegare l’opacità dei filtri spaziali reali. Però la loro previsione attestava che i filtri campione avrebbero dovuto essere esposti al raggio di SURF per circa 10 mesi per ottenere lo stesso spessore di ossido dei filtri nello spazio reale.

Basandosi sui modelli realizzati con i test, i ricercatori hanno visto una corrispondenza quasi esatta con ciò che gli astronomi avevano rilevato nei veri filtri di alluminio nello spazio. Un elemento chiave del successo di questi modelli era la spiegazione del fatto che gli elettroni si disperdono mentre viaggiano all’interno dei filtri di alluminio. Questa dispersione rallenta il loro progresso, che influisce sulla dinamica della crescita dell’ossido.

Affinché i modelli funzionassero, tuttavia, mancava un’informazione chiave: una fonte significativa di acqua che potesse alimentare questa reazione. Doveva essere qualcosa che fosse in grado di rilasciare acqua per cinque anni ininterrottamente a velocità ragionevolmente costanti.

E la fonte più probabile sono le coperte termiche, realizzate con un tipo di plastica chiamato polietilene tereftalato (PET) noto per catturare l’acqua sulla Terra. Quest’acqua di solito non è un problema per la maggior parte delle attrezzature, ma così non è stato per i particolari filtri solari.
Adesso il lavoro futuro includerà il test di diversi materiali da utilizzare nei filtri che sarebbero ancora trasparenti alle lunghezze d’onda da rilevare ma non più suscettibili all’ossidazione.

Riferimenti: NIST

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